Un testo di Laura Rizzerio. Filosofo (UNamur)
Da anni trascorro le mie vacanze estive sulle Alpi italiane vicino al Monviso, in un piccolo borgo formato da vecchie case di pastori. Le case sono private, ma il terreno è comunale, il che significa che tra gli edifici non c’è recinzione e i giardini sono condivisi, gestiti come una risorsa comune di cui tutti si prendono cura per il bene di tutti. Non ci sono negozi lì e il primo negozio di alimentari è a 20 minuti a piedi. La montagna, silenziosa, sovrasta questo luogo di pace dove, normalmente, solo le voci umane, il suono dei campanacci delle mucche, il canto degli uccelli e l’abbaiare dei pochi cani presenti rompono il silenzio che impone. Questo ambiente è un buon posto per riconnetterci con chi siamo nel profondo.
Maestosa, la montagna incute rispetto e umiltà. Lei sta lì, resistente alle intemperie che la colpiscono, “umile” e impassibile anche di fronte ai disastri che la colpiscono – causati, in parte, dai cambiamenti che l’attività umana impone alla natura. Per scalarlo dobbiamo rispondere con umiltà all’umiltà che esso impone. A chi vi si avvicina con arroganza, ricambia: l’ascesa si trasforma in dolore, perfino in fallimento. A chi l’accoglie con rispetto offre i suoi tesori: la forza e il coraggio nell’ascesa, la solidarietà tra i camminatori nel progredire della salita, la benevolenza verso i viventi che accoglie, la pace che nasce nell’abbandono di sé stessi cammino e nell’accoglienza dell’altro che si presenta a sé. In questo la montagna diventa anche fonte di speranza.
In un recente saggio, la filosofa francese Corinne Pelluchon dice che la speranza è “inseparabile dal confronto con la sofferenza”, essendo “orientata verso un futuro che non possiamo prevedere completamente, ma che è annunciato e in un certo senso è già lì”. (La speranza, o il superamento dell’impossibile, Rivages 2023, p. 13-14)
È proprio questa esperienza di “speranza” che la montagna offre a chi la scala con rispetto: ci si confronta con qualcosa più grande di sé; si apre verso un “futuro” che non possiamo prevedere completamente quando ci mettiamo in cammino, ma che è già lì, come la vetta che ci attende; rende capaci di superare le difficoltà nella certezza che, nonostante la fatica, passo dopo passo, forti anche della solidarietà dei compagni di viaggio, il cammino porterà alla vetta; impara a vivere nel presente solo guardando indietro per contemplare il cammino già percorso…
Recentemente ho letto sulla stampa la proposta di rendere la montagna un luogo di vacanza preferito in questi tempi di cambiamenti climatici e ondate di caldo, implementando lì attività di intrattenimento per renderla più attraente. Che idea sorprendente! Invece di lasciarci insegnare da ciò che la montagna può insegnare sull’esistenza e sulla speranza, ci abbandoniamo così alla tentazione di ridurre a noi stessi e ai nostri divertimenti la ricchezza di questo luogo da cui la sua austerità ha potuto, in parte, proteggerci la nostra misura egoistica.
Ma attraverso la sua forza naturale, la sua maestosità e la sua umiltà, la montagna saprà difendersi. È la nostra umanità che andrà perduta andando in questa direzione. A meno che, attratti dalla speranza di cui la montagna resta un magnifico segno, non riusciamo a cambiare strada.
Difensore della musica freelance. Pioniere del cibo. Premiato evangelista zombi. Analista.